La Forlì di Marco Vincenzi
di Elena Dolcini

La Forlì di Marco Vincenzi è quella di un non-forlivese, di una persona che dello spazio urbano ha una visione dettata dalla funzionalità, ovvero dai motivi che lo hanno e lo continuano a portare in questa cittadina di provincia romagnola; da un lato c'è la Forlì istituzionale, quella degli uffici, frequentati in passato dal fotografo marchigiano residente a San Marino, quando recarsi a Forlì era necessario per svolgere alcune pratiche burocratiche; dall'altro c'è una città scelta per essere fotografata, e ancora prima dello scatto, vissuta attraverso le passeggiate per le strade del centro e dello spazio attorno ad esso, senza una precisa destinazione.

La Forlì di Vincenzi è quindi una Forlì analitica, digitale - senza riferimenti alla macchina usata, che è comunque digitale, ma piuttosto al significato dell’aggettivo: discreta, delimitata, in contrapposizione alla continuità non circoscrivibile propria dell’analogico. Una Forlì di cui il fotografo osserva solo specifiche zone; una Forlì critica, su cui Vincenzi ha basato la sua scelta in termini di soggetto fotografico. Analitico e parziale - inevitabilmente parziale, lo sguardo del fotografo è fortunatamente a-pregiudiziale, per quanto possibile, senza preconcetti, uno sguardo permesso solo a chi guarda il suo oggetto - Forlì, in questo caso - da una certa distanza, in alcuni casi dispensatrice di conoscenza.

La Forlì di Marco Vincenzi è quella di un flaneur, di un passeggiatore che, all’interno di una determinata area, percorre itinerari casuali, estemporanei, scelti nell’immediatezza del momento presente e percepiti come esteticamente significanti. Lo sguardo del fotografo si posa su elementi quasi anonimi, non sui simboli della città che attraverso di essi diventa riconoscibile, quelli da cartolina, per intenderci: sono soggetti fotografici comuni, che potrebbero appartenere a molte cittadine di provincia italiane, “icone quotidiane”, come li definisce lo stesso Vincenzi, che vanno scoperti, riconosciuti e per questo necessitano di un ruolo particolarmente attento e vigile da parte del fotografo.

Non solo Vincenzi li nota, se ne appassiona e li fotografa, ma su di essi si concentra ripetitivamente, proponendo una lunga sequenza fotografica che corrisponde quasi all’andamento del suo cammino; in questo modo Vincenzi non compie un’azione forzata di editing, ma presenta le fotografie quasi come in una narrazione, lasciando che tra queste emergano affinità elettive.

Non ci sono persone in questa serie, il che appare come una rappresentazione alquanto veritiera dell'immobilità di questa città, che, a mio parere, non è sinonimo di una romantica sospensione o una metafisica assenza di vita pulsante in precise ore della giornata, ma un'ormai antica atrofia di un luogo spesso dimenticato dai suoi stessi abitanti (me compresa).

Vincenzi fotografa molte serrande abbassate e cartelli con la scritta "affittasi" e "vendesi", la cui estetica è direttamente proporzionale alla condizione sociale e politica di cui sono sinonimo: similmente, entrambi destano stupore. Da un lato sono immagini formalmente interessanti dalle geometrie intriganti, dall'altro metafore di un immobilismo, prima di tutto, commerciale ed economico.

Ma probabilmente questa dimensione poco interessa al fotografo, forse più orientato a trovare e osservare la natura in città, quegli elementi organici, come piante cresciute spontaneamente tra l'asfalto, a cui Vincenzi ha già dedicato altri progetti - in particolare penso a “Intruso"; il muschio è la pianta "umile" su cui il fotografo sembra posare lo sguardo ripetutamente: muschio che ricopre alberi o geometrie del cemento stradale, il cui colore verde si accende nel sole invernale, sicuramente non caldo, ma comunque luminoso, creando un piacevole contrasto cromatico con il resto dell'immagine.

C'è un altro elemento che non solo ritorna nelle fotografie di questa serie, ma che le contraddistingue tutte, dalla prima all'ultima: la loro verticalità. Questa scelta d'inquadratura, tipica del modus operandi di Vincenzi, non è solo una scelta formale, ma anche concettuale: optando per il formato verticale, il fotografo compie quasi una tautologia, ribadendo l'essere frammento della fotografia, il suo rappresentare una porzione del reale, che è selezionato, estrapolato dal suo contesto e flusso vitale.

Inoltre, sono molti gli elementi verticali che popolano le fotografie di Vincenzi: lampioni, alti cancelli, alberi, colonne, monumenti, che, posizionati all'interno dell'immagine, creano un'ulteriore frammentazione, scandendo il ritmo dell'immagine tutta. Quando fotografati in primo piano, sono elementi che suddividono lo spazio e circoscrivono porzioni di paesaggio da analizzare sempre più nel dettaglio; mentre, quando non in prima linea, la loro forma possente diventa meno invadente, meno protagonista e va a comporre un'immagine equilibrata e sintetica.

Così come funzionale è stata la città di Forlì per Vincenzi, funzionale sembra essere il suo lavoro, e questo è sicuramente uno dei suoi aspetti più degni di nota: la sua fotografia è tutto tranne che un esercizio stilistico per sé, un formalismo lezioso o arte per arte; è piuttosto una ricerca il cui processo è ben visibile, un'esplorazione del territorio - un suo ritratto, per usare un gioco di parole con il tipo di inquadratura scelta (cosiddetta “portrait”) - che diviene analisi sociale.

Questa serie conferma la natura relazionale della fotografia di Vincenzi che incontra percettivamente il paesaggio nel quale cammina e ne riporta elementi che da “qualsiasi”, anonimi, diventano connotativi di un attraversamento.