Rimini. Abitare
Stefania Rössl, Massimo Sordi
“Le strade sono lo spazio di risulta tra gli edifici (…), lo spazio pubblico non è che il vuoto tra i luoghi del lavoro, i negozi e le abitazioni. Il camminare è soltanto l’inizio dell’essere cittadini, ma camminando il cittadino conosce la propria città e i propri concittadini e abita realmente la città e non soltanto una piccola porzione privatizzata di essa. Camminare per le vie è ciò che connette il leggere una cartina stradale con il vivere la propria vita, il microcosmo individuale con il macrocosmo pubblico; dà un senso al dedalo che c’è intorno. (…) Il camminare conserva agli spazi pubblici la specificità dell’essere pubblici e la loro viabilità”[1].
Passeggiando tra i quartieri residenziali, prime espansioni della città ai limiti del centro storico di Rimini, ci si addentra in un tessuto urbano ordinato all’interno del quale si distinguono case e palazzine di modesta qualità architettonica predisposte a comunicare, nella loro semplicità, storie di vite differenti.
La strada pubblica appare spesso delimitata ai suoi margini; oltre i marciapiedi si innalzano recinzioni, cancellate, muretti, siepi, elementi necessari per fissare la misura dell’ambito privato e proteggere l’ambiente familiare e la vita che si svolge all’interno della casa.
“Negli stereotipi più comuni il luogo è presentato come la forma compiuta della felicità e della realizzazione di sé, quella della casetta che dovrebbe costituire una felicità intima e segreta (due cuori e una capanna) e simbolizzare al contempo il più diffuso, il più modesto (a volte questi rifugi dell’anonimato vengono chiamati Ça me suffit) e il più ambizioso fra gli ideali”[2].
Tra casa e strada si inserisce dunque un terzo elemento, una superficie scoperta che separa spazio pubblico e spazio privato introducendosi come una fascia netta, chiara, precisa: la soglia.
Uno spazio interstiziale predisposto ad esprimere all’esterno la percezione privata dell’abitare ma anche un luogo identificato come filtro, un terreno capace di mediare la connessione tra dimensione privata e pubblica del quartiere, due parametri complessi che, nel contesto urbano, tendono a rinnovarsi quotidianamente.
Se, come sostiene Bauman, “ci sono, in molte aree urbane, un po’ ovunque nel mondo, case fatte per proteggere i loro abitanti, e non per integrarli nelle comunità a cui appartengono”[3], le immagini fotografiche presentate in questo volume, esito di una ricerca sul campo realizzata attraverso lunghe esplorazioni, possono farci riflettere sulla presenza costante di alcuni elementi separatori, configurazioni di materiali e forme differenti che segnano un confine netto tra ciò che appare e ciò che si intende preservare della vita dei residenti.
Spesso a separare strada ed edificio è un piccolo cortile invalicabile, una zona lastricata impossibile da abitare, utile forse per parcheggiare la vettura di proprietà o per il ricovero di qualche attrezzo, sufficiente appena per lasciar sviluppare qualche elemento vegetale in una improbabile forma.
Così la natura si riduce a un tappeto erboso non troppo curato, oppure viene sostituita da una semplice pavimentazione per esterni dove, la presenza di una siepe potata, può alternarsi al carattere esotico di una palma importata; in questo quadro la presenza dell’albero è una costante, un simbolo di proprietà, la presenza metaforica di un atto di conquista del nostro spazio del vivere. Probabilmente questi piccoli spazi-giardino ci aiutano a capire di più della città e dei suoi abitanti, “ci dicono chi e come li ha costruiti, con quali attese e interessi; come e chi li sta vivendo, indizi di modi di vita che finalmente riusciamo ad immaginare”[4].
Ma la città suggella la volontà del singolo, regalandogli un numero, il famigerato numero civico ostentato e ripetuto più volte, anche se in uno spazio ristretto, per timore di perdita. A volte sembra che gli abitanti si affidino ad esso perché “le persone e i luoghi sono intercambiabili: un personaggio può essere identificato soltanto come un’atmosfera o con un principio, un luogo può assumere una personalità a tutto tondo”[5].
Il cortile diventa allora la nostra soglia, l’elemento che ci protegge tra le sicure mura di casa e ciò che ci separa dall’ignoto della strada, mediando il passaggio tra la sicurezza di uno spazio individuale familiare e l’incontro con il diverso, ciò che non si conosce. E’ uno spazio che, proprio perché ci appartiene, curiamo fino ai minimi dettagli; esso deve rappresentarci, corrisponderci, non deve necessariamente essere invitante.
Le immagini fotografiche realizzate da Marco Vincenzi ci consentono di esplorare lo spazio di relazione che s’instaura tra la strada, spazio pubblico per eccellenza, e la casa, il luogo in cui si dimora. Uno spazio che, passo dopo passo, viene scoperto e svelato dallo sguardo attento e distaccato del fotografo.
Vincenzi conosce bene la città di Rimini, lo si intuisce dalla capacità di cogliere dettagli anonimi dietro i quali i diversi quartieri della città prendono forma nonchè dall’attitudine ossessiva nel cercare di comprendere la dimensione sociale dello spazio urbano, come in un lento ritorno a casa.
Il suo sguardo conquista lo spazio privato inaccessibile, non cerca una rispettosa distanza, ma prova a spostarsi, dallo spazio pubblico, fin dove l’occhio e la macchina possono arrivare, mantenendo un rigore compositivo nel rispetto di un lucido distacco emozionale su cui imposta la costruzione poetica del lavoro. Il punto di vista, spesso frontale, a volte in prospettiva, mira comunque ad una precisa restituzione degli elementi rappresentati che diventano così simbolo non solo di un luogo ma del modo di costruire un luogo, un rapporto, un’identità.
Riferendoci al noto lavoro di Gabriele Basilico e Stefano Boeri esposto al Padiglione Italia alla Biennale di Venezia nel 1996 ci chiediamo se queste immagini rappresentino un ritratto della città di Rimini o se, piuttosto, possano raffigurare il ritratto di una certa Italia contemporanea.
Al camminatore solitario non rimane perciò che percorrere la propria strada, accertando le uniche possibilità di un tragitto non necessariamente lineare e senza sbandamenti ma, presumibilmente, considerando, con Rebecca Solnit, che “l’atto del camminare (…) possa articolare un significato politico”[6].
[1] R. Solnit, Storia del camminare, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2002, p. 200-201.
[2] M. Augè, Sedentarietà e mobilità, in L’antropologo e il mondo globale, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014, p. 49.
[3] Z. Bauman, Fiducia e paura nella città, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2005, p. 13.
[4] S. Boeri,Per un “atlante eclettico” del territorio italiano, in G. Basilico, S. Boeri, Sezioni del paesaggio italiano, Art&, Udine, 1996.
[5] R. Solnit, Storia del camminare, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2002, p. 210.
[6] R. Solnit, Storia del camminare, Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano 2002, p. 9.