di Stefano Schirò
Un bianco e nero che seduce, i colori cremosi dell’anima di Vincenzi che come innumerevoli fiotti di poesia e lucore tutto arbëresh invadono la retina dello spettatore: la stupefazione, la declinazione del bello, che in quasi ogni scatto collima con la quiete che ha saputo testimoniare. Vincenzi, offre un bouquet di foto, rivelandosi un narratore quasi neorealista degli eventi. Le viuzze, gli scorci nella loro immobilità, con la medesima potenza del muro candido de “In vedetta” del Fattori, con la stessa auroralità pierfrancescana vengono consegnati all’eternità. La geometria seduce il Nostro, e non solo negli scorci architettonici -spesso dechirichianamente vuoti, ricolmi di pathos- ma anche nella significativa foto con bandiera della sezione “feminile” del circolo comunista di Piana dei Greci: i contorni della stessa fungono da inno alle forme pure.
Il racconto è lineare, concreto come nelle prose di Silvio D’Arzo; trasuda verità, viscerale amore come in certi scritti di Fabrizia Ramondino. Marco Vincenzi rispetta i silenzi del rito greco-bizantino, sceglie squisite prospettive per rappresentarlo, non trascura le arti decorative siciliane (fotografa infatti “brezin” la cintura della tradizione e la fissa nella foto come una natura morta morandiana: quanto è carica di significati quella cintura? Simbolo imperituro di fertilità e di gaiezza). Sceglie i volti, li immortala nella loro semplice teatralità, nelle loro pose belle poiché naturali. E non trascura quella massa nera che è il manto della Addolorata del Bagnasco, ritraendola con la stessa pienezza cromatica delle montagne di Cezanne: lei c’è. E mentre una fanciulla si appresta a indossare o a sfoggiare con fierezza da basilissa il costume della tradizione -tripudio di ori, foresta di simboli- un’altra bambinetta con la mantellina è pronta a rubarci l’anima e a degustarcela tutta, con la sua bellezza antica, degna di un cammeo, quasi una scultura in cera della palermitana Anna Fortino.
Il racconto è lineare, concreto come nelle prose di Silvio D’Arzo; trasuda verità, viscerale amore come in certi scritti di Fabrizia Ramondino. Marco Vincenzi rispetta i silenzi del rito greco-bizantino, sceglie squisite prospettive per rappresentarlo, non trascura le arti decorative siciliane (fotografa infatti “brezin” la cintura della tradizione e la fissa nella foto come una natura morta morandiana: quanto è carica di significati quella cintura? Simbolo imperituro di fertilità e di gaiezza). Sceglie i volti, li immortala nella loro semplice teatralità, nelle loro pose belle poiché naturali. E non trascura quella massa nera che è il manto della Addolorata del Bagnasco, ritraendola con la stessa pienezza cromatica delle montagne di Cezanne: lei c’è. E mentre una fanciulla si appresta a indossare o a sfoggiare con fierezza da basilissa il costume della tradizione -tripudio di ori, foresta di simboli- un’altra bambinetta con la mantellina è pronta a rubarci l’anima e a degustarcela tutta, con la sua bellezza antica, degna di un cammeo, quasi una scultura in cera della palermitana Anna Fortino.