Lungo i fiumi di San Marino
Il torrente, il fosso e la superstrada

Opera video di Marco Vincenzi

Ho cercato spazi liberi dalla determinazione urbana
ho associato quegli spazi all’ambiente urbanizzato
mi sono mosso sul confine, alla frontiera
il mio passo, come l’andare in auto, è una cauzione a ripetere
una trasformazione continua, dalla visione fisica all’immagine mentale
dalla Picture all’Image
un lento e ipnotico percorso, che richiede l’ossessività di un tempo lungo
l’attenzione libera dal pensiero, l’attenzione della percezione

Questo l’incipit dell’autore.
E partiamo!

Perché di una vera e proprio partenza si tratta. Si tratta di una partenza in auto e non c’è voce. Lungo il torrente e lungo il fosso, né tanto meno lungo la superstrada: non c’è voce. C’è l’auto. E dentro l’auto, esiste l’occhio che guarda e il suo sguardo è fisso. La realtà che riprende, è solo ciò che è la realtà. Non si gira a ricordare, né tanto meno si sofferma a guardare: la realtà passa e va! O, forse, è il tempo che passa e va? Ma sul tempo che passa ci ritorneremo fra non molto.

Mai si incontra un essere umano, tranne che sotto i portici di Borgo Maggiore, lì, passa un’ombra. Sarà forse un figurante della quotidianità. Per il resto: prospettive di alberi che si ripetono. Per il resto: brevissime e ripetute prospettive di case basse che si rincorrono. E abitazioni alte, che altrettanto rincorrono la prospettiva del giorno. Per il resto: automobili ferme, bar fermi, vetrine ferme e tutto è fermo. L’auto non ferma. L’occhio dentro la telecamera è fisso e guarda; mai si ferma a guardare!

Ma questo è il gioco. Questo è un gioco. Ed è proprio serio, come serio è giocare.

L’attimo passa: è nell’obiettivo della telecamera che inquadra: ma è già passato. Non c’è tempo, né per vedere, né per osservare. La cauzione a ripetere non ha mai tempo. E se l’avesse, se potesse riflettere: che cauzione a ripetere sarebbe? E poi, è lo stesso artista, lo stesso autore, che all’inizio dell’opera video dichiara mi sono mosso sul confine, alla frontiera / il mio passo, come l’andare in auto, è una cauzione a ripetere.

Ed è in questa dichiarazione di Vincenzi, la sua arte! L’interesse per il confine, per la frontiera! La sua storia di fotografo: questo racconta: la curiosità estetica, artistica, umana, che sempre ha portato il suo occhio, la sua anima, ad indagare le frontiere: i confini: la sua ricerca che nel tempo è diventata il suo stile. Il suo linguaggio.

Ma ritorniamo alla cauzione a ripetere, che forse altro non è, che la caratteristica dell’occhio del fotografo, che altro non può fare che ripetere e ripetere e ancora ripetere: l’occhio va messo lì: e guardare! Osservare! Capire! Qualche volta: il click!

La cauzione a ripetere, che per meglio accentuarla, ecco la colonna sonora: il pianoforte di Hans Otte. Il pianoforte di Herbert Henck. Mentre l’auto continua ad andare. Rallenta. Accelera. Si sofferma. Mentre l’auto continua ad andare. Brevissime soste.

Quello che interessa poi, non è tanto che la realtà possa passare! No! Per passare, passa. Perché qui, la questione non è la realtà. Qui - e lo avevamo anticipato poc’anzi - il tema, la questione: è il tempo!

Un lento e ipnotico percorso, che richiede l’ossessività di un tempo lungo.

Così si raccomanda fin dall’inizio l’autore. 

E questa macchina che va, mentre va il tempo: è una ossessione.

E questo pianoforte: è un’ossessione. E questa realtà: è ossessione.

E forse che non è anche il passare del tempo: un’ossessione?

Ha un nome e cognome. Sul finire dell’ottocento e nei primi anni del novecento, scrive sei libri. Racconta del tempo. Era francese. A Parigi nasce. A Parigi muore. Ma anche gli impressionisti, erano francesi. E anche loro avevano l’ossessione di quel che passa e quel che passa e mai più ritorna. E mai più sarà uguale a quel che è passato. E lui, Claude Monet, che si mette davanti alla Cattedrale di Rouen e in due anni realizza, dipinge sempre dallo stesso punto, ben 31 Cattedrale di Rouen. E com’è monotona la ricerca di Monet; com’è monotona l’opera di Proust. E come è monotona questa ripresa di questa macchina che non sa far altro che inquadrare ora un muro, ora altre auto, ora case, alberi e cancelli e curve e vetrine e segnali stradali e di sfuggita gente al volante e pali elettrici e piccole aiuole, pompe di benzine, di gas, di metano, e stop disegnati a terra e asfalto e rotonde e porte di alluminio e porte di ferro e portoni, finestre, scale saracinesche, guard rail, barriera Jersey, insegne, manifesti, riflessi delle vetrine, reti che delimitano proprietà e proprietà che delimitano la strada e foglie e rami e tronchi, contenitori per la raccolta differenziata e banche, portabagagli aperti, vasi di piante davanti alle case e davanti ai negozi,… e poi, la magia che solo l’arte può fare. Là dove per natura un fiume può solo scorrere a valle. Qui, si gira e si inizia a salire! Lungo i fiumi di San Marino ha la sua magia! E tutto si ripete. Non è uguale a prima. Ma tutto si ripete: in maniera diversa: ma si ripete. Mentre la superstrada risale di nuovo: pali elettrici e piccole aiuole, pompe di benzine, di gas, di metano, e stop disegnati a terra e asfalto e rotonde e porte di alluminio e porte di ferro e portoni, finestre, … Così come nella monotona-ossessione nella Recherche di Proust. Così come nella monotona-ossessione di Monet. Così Vincenzi: ripete.

Ma questa monotona-ossessione del tempo, è uno stile. É un linguaggio. È l’arte. Questa ossessione, che solo nella ripetizione sa e può rendere le movenze fra il confine e la frontiera. Ed è solo così che può sviluppare l’attenzione libera dal pensiero, l’attenzione della percezione.

Pensiero e percezione: e qui c’è lo scatto del vero artista.

Del fotografo. Mai dimenticarlo: Marco Vincenzi è fotografo.

Qui, l’intuizione!

E l’intuizione diventa linguaggio.

Diventa stile. È il racconto vero!

È l’uomo che rivendica la sua appartenenza alla sua sensibilità allo sguardo: e Marco ne ha! Non è più tempo di cauzione a ripetere. Il confine ora appartiene al cuore. Alla sua fotografia. Abbiamo superato anche quel lento e ipnotico percorso, che richiede l’ossessività di un tempo lungo; e possiamo permetterci costantemente di andare oltre l’attenzione libera dal pensiero, l’attenzione della percezione.

E Vincenzi per far questo usa l’abilità della tecnica.

Usa l’abilità del suo cuore e della sua capacità di rendere omaggio al gioco del mondo che circonda l’uomo. Il pianoforte continua la sua ossessione. L’auto continua la sua discesa e la sua risalita. Ma nel video - fin dall’inizio - mentre conduce il suo racconto, l’artista mette, espone a intervalli regolari, come sa fare chi conosce l’arte dell’orchestrare, espone gli scatti del suo essere fotografo. Sono centinaia gli scatti che raccontano il fosso. Il torrente. Raccontano anche lo sporco del fosso e del torrente. Una serie interminabili di foto che non entrano nel gioco dell’ossessione, della cauzione a ripetere.

Solo, quelle foto che scorrono, vogliono dire di noi! Anche l’auto che percorre la superstrada, dice di noi. Ma c’è un noi e un noi.

E chissà?!

Chissà da cosa siamo presi?

Cosa riesce a raccoglierci?

Stiamo più comodi nell’auto che mentre viaggia, guarda fuori, guarda percorrendo, il fiume della superstrada di San Marino?

E se invece, stiamo fermi, a guardare gli scatti che passano e che raccontano del fosso e del torrente?

Due tempi. Quello del video che scorre. Quello degli scatti che vanno e vengono. Quello che scorre, come a raccontare, che passa. Quello degli scatti, a raccontare, un tempo che respira e mostra una radice di un albero. Mostra foglie e rami e sassi e cespugli e acque e l’arrotolarsi di cose che hanno ore, giorni, anni e secoli e ancora altro sempre eterno tempo.

O forse, Marco Vincenzi, sa sfruculiare anche altro?

Un altro tempo, che nell’incanto dell’ipnosi, nella delicatezza del bianco e nero, sa renderci estranei, estraniarci da quel che è reale, dal tempo che passa ma unicamente per mostraci, farci partecipi dell’arte del reale, dell’arte del tempo che passa.

E non era questo quel che volevano dire Monet e Proust?

Pasquale D’Alessio